mercoledì 23 dicembre 2015

Analisi metapolitica di Marcello Veneziani.


 

Chi ha ucciso la cultura di destra in Italia?

Le piste al vaglio degli inquirenti sono quattro: la sinistra, Berlusconi, Fini, l'auto-liquidazione. O per dir meglio, le ipotesi finora avanzate sulla sua scomparsa sono le seguenti: a) l'egemonia culturale della sinistra con la sua cappa ideologico-mafiosa le avrebbe negato gli spazi di libertà e visibilità fino a soffocarla, confinandola in una zona proibita e infame. b) l'egemonia sottoculturale del berlusconismo in tv, nel costume e in politica l'avrebbe per metà corrotta e per metà emarginata, di fatto neutralizzandola. c) l'insipienza della destra politica avrebbe demolito ogni ragione culturale e ideale della destra, fino all'epilogo indecente della sua liquefazione. d) infine, la cultura di destra è evaporata per la sua stessa inconsistenza; era solo una diceria, un fantasma del passato, un mito o una protesi.

In una certa misura, sono plausibili tutte le piste indicate ma a patto di chiarirle meglio e circoscriverne la portata. Certo, la cultura dominante di sinistra, dopo un periodo di dialogo e di apertura, si è come inasprita negli anni del conflitto berlusconiano e alla pregiudiziale antica nei confronti della destra si è aggiunta la damnatio del berlusconismo. Fino a condannare la cultura di destra alla morte civile tramite finzione d'inesistenza. Sono lontani i tempi in cui un editore come Laterza pubblicava, facendo quindici ristampe, un saggio sulla cultura della destra di un autore vivente di destra. In seguito, avvelenato il clima, lo stesso editore declinò l'invito a integrare quel testo coi dialoghi dell'autore con Dahrendorf e con Bobbio. L'epoca dei dialoghi era ormai finita... Ma è pur vero che la cultura di sinistra era egemone già ai tempi in cui fioriva la cultura di destra e poi la nuova destra, tra gli anni settanta e i novanta; dunque l'ipotesi è fondata ma non basta a spiegare da sola la sconfitta della cultura di destra.

​È vera pure la seconda osservazione: la sottocultura televisiva, il frivolo e il banale dominanti, hanno reso straniera la cultura di destra, l'hanno messa a disagio, fuori posto. Ma quella sottocultura imperversava già dai tempi della tv in bianco e nero, della Carrà, dei quiz, di Giovannona coscialunga e affini; e allora non c'era ancora il berlusconismo. Insomma pure questa ipotesi è fondata ma non basta a spiegare da sola il disarmo politico della cultura di destra.
Anche l'insipienza della destra politica è storia vecchia, Fini l'ha portata al suo gradino ultimo, ma sarebbe troppo ritenere che i suoi passi falsi abbiano cancellato la cultura di destra. Quella cultura, peraltro, non viveva all'ombra di un partito, anzi era in permanente tensione e dissidio; per la stessa ragione non può essere stata uccisa dalla politica; semmai dall'assenza di luoghi politici e mediatici, istituzionali e culturali, in cui elaborare ed esprimersi.

Infine all'evaporazione della cultura di destra per intrinseca inconsistenza si può credere fino a un certo punto: vero è che la cultura di destra ha grandi radici e rari frutti ma la sua scarsa incidenza politica è dovuta in gran parte alla sua indole impolitica e la sua allergia a coprire ruoli di intellettuali organici o di intellettuali collettivi. Piuttosto è vera la rarefazione delle intelligenze, anche per il clima di cui sopra, tra nemici di fuori, ignoranti di dentro e il nulla che tutto pervade. Nel generale degrado della cultura, anche quella di destra sparisce. Della cultura di sinistra sopravvive la cupola del potere culturale, il suo ceto dominante e la sua intolleranza in forma di razzismo etico, ma non l'elaborazione di idee vive, di pensieri e opere originali.
Insomma i fattori qui esaminati possono essere considerati concause della sconfitta della cultura di destra ma la causa regina non riguarda solo la cultura di destra, non è la prevalenza di una cultura antagonista e nemmeno la modestia del suo ceto politico ma è la massiccia, radicale deculturazione in atto, ossia l'avvento di un potere e di una mentalità - non di un “pensiero unico” perché c'è poco pensiero – che espianta le idee, le radici e le culture e afferma il suo dominio cinico e nichilista sull'individualismo globale e mutante. Un orizzonte del genere mortifica ogni cultura politica; ma ancor più la cultura di destra, fondata su basi naturali, ereditarie e spirituali, totalmente divergenti e radicalmente avverse a quel mondo.

Disprezzo e autodistruzione                                           
Sul piano pratico il disprezzo concentrico verso la cultura di destra è stato promosso da tre agenti: una sinistra ancorata al politically correct che esprime e propaga ribrezzo etnico e antropologico verso chi è di destra; la presenza a destra di personaggi screditati, inaffidabili prima che impresentabili; e infine il complice, connivente, “disprezzino” dei cosiddetti indipendenti, terzisti e cerchiobottisti, a volte persino moderati vaghi, snob o affetti da codardia. Ci sono ballerini in punta di piedi che bilanciano ogni critica a sinistra con un insulto gentile a destra, per mostrare che sono in perfetto equilibrio; personcine ammodo che vogliono ostentare di essere incontaminate dal virus destrorso. Oggi la cultura di destra non è rappresentata in alcun luogo istituzionale, canonico, o nei grandi media.

Non mancano però pulsioni autodistruttive nella cultura di destra, derivate da un pessimismo apocalittico un po' congenito unito a uno sconforto vittimista derivato dalla situazione. La cultura di destra ha così dismesso i panni della cultura militante, panni vecchi e fuori tempo, si è fatta divina e sublime, direi con gergo pasoliniano, cioè invisibile e celeste, meno legata alla storia e alla lotta, più essenziale ed esistenziale, liberata dalle categorie ideologiche, più incline alla metafisica, alla letteratura e al mito. Del resto, i suoi grandi autori del passato, nonostante alcuni ombrosi risvolti biografici, restano grandi ed è meglio che non siano sporcati nella contesa politica e siano lasciati alla loro solitudine stellare di impolitici o di metapolitici.
Sfortunata quella cultura che ha bisogno della politica per darsi una prospettiva di vita. Non è la politica a legittimare e innalzare la cultura, è una concezione assistenziale, cortigiana e parassitaria della cultura; meglio la solitudine ribelle e aristocratica della cultura: o la versione popolare, comunitaria della cultura che diventa mentalità, sensibilità, sentire comune. La cultura si addice a popoli o a solitudini, non è appannaggio di club, sette, partiti degli intellettuali o intellettuali di partito. Sfortunata è quella cultura che ha bisogno della politica, ma più sfortunata è quella politica che crede di poter fare a meno della cultura. Le culture di partito, militanti, servono a poco, servono male e soprattutto servono, cioè sono servili, dunque perdono in dignità e in libertà.
Ma i partiti senza cultura non vanno da nessuna parte, pescano voti e occasioni però si perdono nel nulla. È sbagliato obbligare la cultura a un’etichetta, di destra o di sinistra che sia. Ma non è sbagliato fare l’inverso; se la politica non ha la vista lunga, non ha un progetto e una passione civile, se non si sedimenta e diventa una sensibilità e una visione, è passeggera, volatile, autoreferenziale, asservita al potere e agli interessi economici.

Il fallimento della destra di governo
Al di là degli agenti profondi che hanno concorso alla sconfitta della cultura di destra, c'è un fattore macroscopico, evidente: il fallimento dell'esperienza di governo della destra politica. La destra in Italia non è sparita perché ha fatto troppo la destra; non è caduta su progetti, imprese, idee connotate con i propri colori e con la propria cultura. È morta d'anemia, si è spenta perché si è resa neutra e incolore, perché si è uniformata per confondersi; perché non ha inciso, non ha lasciato segni distintivi del suo passaggio. Non è morta d'identità ma di nientità, non è morta di estremismo ma di mediocrità. Non è morta nemmeno di saluti romani e culture retrò ma d'imitazioni maldestre. Nessuna delle critiche di gestione mosse alla destra si può attribuire alla sua storia, alla sua indole e ai suoi valori; anche gli aspetti peggiori non nascono dalla sua storia ma sono imitazioni e importazioni di modelli. Erano modi di adeguarsi all'andazzo, tentativi di mostrare che erano uomini con uso di mondo, sapevano stare al potere e in società, non disadatti o a disagio.
A volte si sono adeguati al peggior berlusconismo, a volte hanno imitato il peggio della prima repubblica che all'epoca contestavano. A volte hanno cercato di compiacere la sinistra e le sue fabbriche d'opinione, i poteri che contano, i media ostili. Senza peraltro riuscirci. Hanno avuto paura di spingersi troppo, di osare. Temevano di perdere il posto, ma l'hanno perso lo stesso, perdipiù senza gloria e senza il sostegno dei loro elettori di sempre.
Dicendo che la destra non ha pagato per la sua identità e la sua cultura politica, non intendo sostenere l'inverso, cioè che se fosse stata coerente avrebbe trionfato. Forse avrebbe perso ugualmente, ma con maggior dignità, avrebbe un punto da cui ripartire, avrebbe lasciato qualche traccia, avrebbe almeno la fiducia dei suoi cari. Con le identità non si governano gli stati; si fanno partiti di nicchia o al più larghi movimenti d'opposizione come è il caso di Marine Le Pen, ma non si va al governo. Ma ha senso andare al governo se poi si va via in modo disonorevole senza lasciar tracce né buoni ricordi, nemmeno tra la propria gente? Il problema numero uno è l'inadeguatezza di quella classe dirigente, la pessima selezione di quel personale politico.

​Chi viene da destra abbia il coraggio di fare un bilancio impietoso degli anni passati al governo. È stata al potere ma cosa ha lasciato per la destra, per le città, per l'Italia? Un pugno di mosche più qualche zanzara. Non resta che ripartire da zero, con volti nuovi, teste capaci e cuori intrepidi. Se ci saranno. E infine un leader che avrà la forza di sintetizzare, senza polverizzare, le varie componenti.

Marcello Veneziani
 (Estratto del saggio  per la rivista Paradoxa sulla sconfitta delle culture politiche, a cura di Gianfranco Pasquino e Dino Cofrancesco)

Analisi geopolitica dI Alexander Dugin.


 
 
Verso una Grande Guerra
 
In verità già siamo in guerra. Una guerra innescata dal conflitto tra due civiltà: la terra della civiltà, oggi rappresentata dalla Russia, e il mare della civiltà, ora rappresentato dagli Stati Uniti.
E’ un conflitto che si ripete nella storia. Gli antagonisti sono due sistemi: l’uno si basa sul commercio, l’altro sul valore dell’uomo; così fu con Cartagine contro Roma, con Atene contro Sparta.
In determinate epoche storiche questo conflitto raggiunge momenti di estrema tensione. Siamo di nuovo in questa fase. Siamo sull’orlo della guerra, di una guerra fatale perché può diventare l’estrema battaglia delle nostre vite. I due grandi avversari – gli Stati Uniti e la Russia – sono potenze nucleari e una guerra tra loro è destinata a coinvolgere tutte le nazioni della Terra. Può determinare la fine dell’umanità. Questo, naturalmente, non è sicuro, ma non può essere affatto escluso.

E’ un grande conflitto che si svolge su più livelli. Se sul piano spirituale è sempre evidente che l’equilibrio del potere non può che favorire chi è nel giusto, chi è fedele alla luce, a livello strategico può sembrare un po ‘ diverso. I ruoli nella guerra non sono simmetrici. La Russia è in una posizione più debole, ma sta cercando di riprendersi il suo status di attore globale. Intende ripristinare la sua potenza regionale e vuole esercitare liberamente la propria influenza in aree vicino ai suoi confini.

Tuttavia ciò è inaccettabile per gli Stati Uniti, che, nonostante tutto, detengono l’egemonia globale e si rifiutano di perdere il potere monopolare di propria volontà.

Se prendiamo in considerazione il background spirituale della guerra, diventa chiaro che l’oscurità non può permettere alla luce di esistere in qualsiasi proporzione. Per l’oscurità è necessario combattere la luce ovunque, non solo a livello globale ma anche a livello locale. Un fascio di luce è abbastanza forte per trasformare l’oscurità. Al contrario nell’oscurità, senza la luce, si può fingere di essere qualcosa.
Ecco una prima importante conclusione: le ambizioni globali del moderno Occidente materialista e tecnocratica, del globalismo di per sé non sono una semplice emergenza, ma l’essenza stessa della forza che dobbiamo affrontare.
È ingenuo supporre che si possa negoziare con il diavolo, o ingannarlo. Si può solo vincere. Questa è la legge di guerra spirituale. Oggi l’una attacca e l’altra si difende. Ormai la guerra giunge quasi sul territorio russo, nell’area del suo diretto interesse nazionale. Allo stesso tempo, la Russia cerca di andare oltre i suoi confini: è una guerra difensiva. Attualmente i suoi sono soltanto obiettivi regionali. Tuttavia la potenza nucleare globale le impedisce di raggiungerli. Questo complica la situazione ed eleva il conflitto a livello mondiale. In ogni caso, la Russia viene attaccata, e si difende. Questo è importante.

Andiamo ora ad analizzare i fronti di guerra.

Primo fronte: Siria


Fin dall’inizio del conflitto siriano, Mosca ha appoggiato Bashar Assad che era assediato da Washington, dall’Europa occidentale e dagli alleati Usa nel Vicino Oriente: Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Ciascuno di questi paesi, tuttavia, ha seguito i propri interessi. I gruppi islamisti radicali (Is-Isis, al-Qaida/al-Nusra) sono stati lo strumento per tentare di rovesciare Assad. La Russia è stata pienamente coinvolta nelle operazioni belliche solamente nel 2015, quando un Assad in difficoltà ha chiesto l’aperto sostegno militare. Mosca ha ottenuto come alleato l’asse sciita: Teheran, gli sciiti dell’Iraq e l’Hizbollah Libanese; essi non solo collaborano, ma combattono fianco a fianco con i siriani e i russi. Il mondo sciita è rigorosamente anti-americano, ma al tempo stesso, a livello regionale, si oppone ai gruppi radicali salafiti appoggiati finanziariamente dai regimi sunniti sauditi e qatarioti.
Sul primo fronte, la Russia è in conflitto con gli Stati Uniti e i paesi della Nato non direttamente ma indirettamente. Gli stessi paesi occidentali sono in guerra con Isis, a quanto dicono, ma in realtà fortemente sostengono i gruppi islamici radicali per rovesciare Assad. La stessa tattica era stata usata per rovesciare Gheddafi in Libia. Inoltre, la presenza di salafiti jihadisti in Iraq, così come di talibani in Afghanistan, serve a giustificare la continua presenza di truppe americane nella regione.

Così questo primo fronte diventa una sfida fondamentale per la Russia: combatte indirettamente con gli Stati Uniti e la Nato e quasi apertamente con la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar. Pertanto la guerra in Siria non può essere considerata come una normale operazione anti-terrorismo: in aggiunta, i salafiti ora controllano più parti della Siria, con una notevole quantità di aiuti diretti e indiretti a sostegno.

Ma la Russia è una potenza nucleare. E il suo coinvolgimento nella guerra siriana ha drasticamente cambiato la situazione, portandola da locale a livello globale. Con il suo coinvolgimento, ha messo molto in gioco. Ora non è solo un problema di Assad, i suoi nemici sono costretti a combattere con la Russia. Tuttavia è vero anche il contrario: anche la Russia sfida non soltanto la rete terrorista di Isis e al-Nusra, ma l’egemonia americana e il salafismo medio-orientale, con le sue forti basi nelle ricche petro-monarchie del Golfo. L’importante è quanto Mosca abbia compreso la gravità della situazione che le è di fronte, e quanto sia pronta a sostenere una guerra in uno scenario così difficile, con una potente coalizione sul lato opposto. Dopo tutto, gli Stati Uniti e la Nato sono lì, sono coinvolti e non importano le loro parole, ma i fatti.

Secondo fronte. Turchia


Convolta sempre di più nella guerra siriana, La Russia si trova opposta, in particolare alla Turchia, che di fatto occupa la Siria del nord abitata dall’etnia turcomanna e lì combatte i curdi siriani.
Erdogan ha creato un’alleanza di lungo periodo con il ricco Qatar per sostenre i gruppi salafiti (come la “Fratellanza musulmana” in Egitto) e ha iniziato una lotta attiva contro Assad. Quando le forze militari russe in Siria hanno cominciato a bombardare le posizioni del salafiti nel nord della Siria, Mosca è stata così coinvolta in un conflitto diretto con Ankara. Il jet militare abbattuto e il brutale assassinio dei piloti russi sono stati soltanto un pretesto per aumentare la tensione. Quando la Russia ha iniziato a esporsi con determinazione nel conflitto, e non esisteva un’altra possibilità, la guerra con la Turchia è diventata una conseguenza. Poi c’è stata la rottura delle relazioni commerciali, il divieto sul turismo, e l’espulsione delle imprese edili turche, un attacco alla sfera economica turca forte e dolorosa, che ha portato a perdite multimiliardario. Per ritorsione da Ankara giunge la minaccia costante di chiudere il Bosforo alla marina – anche mercantile – russa. Verrebbe tagliata così un’arteria vitale per le truppe russe di base nella siriana Latakia. I Turchi hanno inoltre spostato, in queste ultime settimane, una parte significativa delle loro truppe dal confine con la Grecia al confine con la Siria, e questa può essere considerata come la premessa per un’invasione militare.

Tutti questi fatti aumentano notevolmente il rischio di una nuova guerra russo-turca.

Ci si chiede quanto sia probabile, un tale evento. È più probabile di quanto non lo sia mai stato nel XX secolo e in questi primi decenni del XXI secolo. Questo secondo fronte è già stato aperto. Al momento nessuno può prevedere con certezza quando ciò si tramuterà in un vero e proprio conflitto. In teoria potrebbe accadere in qualsiasi momento. Vale la pena ricordare che la Turchia è uno Stato membro della Nato che sta coordinando le sue azioni in Siria con Washington. Significa che la Russia ha di fronte la coalizione occidentale (guidata dagli Usa) pronta ad una potenziale nuova guerra, come è stato nel XIX secolo con la guerra di Crimea. E un tale conflitto regionale avrebbe ovviamente un impatto globale. Questo è vero in particolare perché la Turchia ospita una base militare nucleare degli Stati Uniti.
Una vera e propria guerra con la Turchia non potrebbe che essere l’inizio di un devastante III conflitto mondiale.

Terzo fronte. Ucraina


La riunificazione della Crimea con la Russia non è riconosciuta da tutti Paesi del mondo. Il DPR Donetsk (la Repubblica popolare del Donetsk) e la lpr (la Repubblica popolare di Lugansk) sono una ferita aperta e il loro status non è riconosciuto. La posizione di Poroshenko a Kiev è piuttosto instabile e un cambiamento reale della situazione economica e sociale in Ucraina appare, in generale, impossibile. Così per Kiev resta una sola strada per sopravvivere: un nuovo ciclo di tensione e di escalation bellica nelle regioni orientali come pure un’invasione della Crimea. Se l’Ucraina giungesse a tale conflitto con la Russia, l’evento sarebbe suicida per Kiev. Tuttavia, dobbiamo tener conto degli Stati Uniti e della Nato. L’Occidente ha sostenuto e finanziato il colpo di stato dell’inverno del 2014 e quindi un attacco alla indipendenza – ormai consolidata – delle regioni del Donbass oppure in Crimea, da parte dell’esercito ucraino, è del tutto possibile, sia per ragioni interne in Ucraina e sia, ancor più, nell’ambito della logica del confronto globale tra la Russia e gli Stati Uniti.

Vale la pena di notare che tutti e tre i fronti si trovano ai confini della Russia, nella zona che la separa l’Eurasia e la Russia, nel suo spazio vitale continentale e che è stata il luogo di incontro della civiltà est-ovest.
Tutti e tre i fronti sono sui territori dell’ex impero ottomano. La Russia riacquisì il Donbass e la Crimea dai turchi, e la Siria era una parte dell’impero del Sultano. Prima della conquista ottomana erano aree del mondo ortodosso-romano-bizantino, Turchia attuale inclusa. Pertanto, si tratta di tre fronti chw riassumono in sé un enorme senso storico e di civiltà.

Ora guardiamo i problemi interni della Russia. Anche qui esistono tre situazioni, tre fronti.

Quarto fronte. Il terrorismo salafita in Russia


La rete delle strutture dell’islamismo radicale legata all’Arabia Saudita, al Qatar e alla Turchia è stata lungo dispiegata anche in Russia: nel Caucaso settentrionale, come pure in altre regioni. Poiché l’afflusso di popolazione musulmana in città russe e nella stessa capitale continua, le reti si allargano ovunque e coinvolgono l’intero spazio della Russia. Non sono limitate alle aree densamente popolate da musulmani, ma espandono attivamente la loro influenza in altri ambienti sociali. Utilizzando una varietà di problemi interni, la mobilitazione radicale dell’islam sunnita è diventata molto popolare come alternativa all’incoerente e apatica politica di Mosca e ai suoi rappresentanti regionali, burocrati e conformisti. Viene alimentata la formazione di gruppi terroristici legati all’Isis.
Se si avesse un minore coinvolgimento dei servizi speciali con compiti di deterrenza, mancherà il piano strategico e un programma di contrasto ideologico per combattere il radicalismo islamico. E questo renderebbe il Quarto Fronte estremamente importante (e pericoloso).
Il quarto fronte era già stato in realtà un punto caldo nella prima e seconda guerra cecena; la svolta vittoriosa nella seconda campagna fu raggiunta solo utilizzando una linea patriottica radicale in politica interna. Eventuali nuovi tentativi di indebolire il discorso nazionalista rafforzerebbero automaticamente le tendenze centrifughe e i gruppi estremisti. Il quarto fronte è già aperto ed è già in atto. Senza seminare il panico tra la popolazione, i servizi di sicurezza operano dietro le quinte ed hanno potuto evitare una gran quantità di attacchi terroristici grazie a misure di prevenzione, che, in effetti, sono impressionanti, anche oggi.
Poiché gli Stati Uniti, le sue agenzie di pressione internazionali e i suoi alleati in Medio Orientesostengono tale “quarto fronte”, dobbiamo attenderci nuovi ingenti finanziamenti a favore dei radicali islamisti e, cosa ancora più importante, il supporto a una nuova spirale del terrore.

Quinto fronte. Quinta colonna


Questo fronte è una rete di forze di opposizione il cui nucleo è composto da gruppi di liberali pro-americani che sognano di tornare agli anni Novanta, il periodo di evidente saccheggio della Russia e della svendita di tutti i suoi beni a oligarchi e a enti stranieri, e da un’onnipotente elite che usò, come carne da macello, i radicali nazionalisti e i neo-nazisti russi che erano insoddisfatti delle allora autorità russe, della loro politica passiva sulla crescente migrazione e dell’ assenza dell’idea nazionale. Poiché i centri liberali non sono tuttora in grado di organizzare corpose proteste su vasta scala, i radicali russi nazionalisti hanno avuto e tuttora svolgono un ruolo di enorme supporto a tale coalizione liberal-liberista.
I liberali pro-americani restano il principale centro di coordinamento per le decisioni importanti e sono in contatto con Washington. Gli Stati Uniti stessi appoggiano ufficialmente tale movimento “democratico”, concedendogli notevoli aiuti finanziari.
Il finanziamento di questo quinto fronte, di questa “quinta colonna”, proviene anche da fonti non molto evidenti o chiare. In piazza Bolotnaya, nella primavera del 2012, la quinta colonna ha mostrato cosa riesce a fare. In caso di aggravamento delle conseguenze delle sanzioni e di possibili conflitti militari, la quinta colonna può diventare un fattore significativo per indebolire la Russia. Prepara una pugnalata alla schiena che potrebbe rivelarsi decisiva, tanto più se non verrà corretta l’ inefficienza amministrativa interna. In determinate circostanze, di fronte all’inerzia nella gestione del bene comune, la gente comune potrebbe unirsi al “quinto fronte”, creando una seria minaccia.

Sesto fronte. Filo-occidentali, liberali nel governo e nello Stato


Questo gruppo è stato recentemente chiamato la sesta colonna. I liberali e i filo-occidentali che integratisi nel potere nel 2000 – o rimasti lì in sella a partire dagli anni Novanta – hanno formalmente accettato il gioco delle nuove regole. In contrasto con la quinta colonna, i rappresentanti di tale ‘sesta colonna ‘ sono ufficialmente fedeli alle autorità, e obbediscono senza discutere agendo in uno spirito di lealtà. Tuttavia, la sesta colonna segue l’ideologia occidentalista vedendo negli Stati Uniti e nella Nato le avanguardie per il progresso del genere umano, con l’economia guidata esclusivamente usando metodi e approcci liberal-liberisti. Spesso, le fortune e le famiglie di questi alti funzionari russi sono residenti nei paesi occidentali. In questa situazione, la loro lealtà e i loro vincoli patriottici celano il sabotaggio coerente della sovranità nazionale, degli ideali nazionali, delle linee di deterrenza economica, amministrativa e delle strategie di informazione. Tale sesta colonna opera un sistematico, deliberato e abile sabotaggio della rinascita russa, contenendo, sostituendo o surrogando un’autentica riforma patriottica con simulacri e contraffazioni.
La sesta colonna non è diversa nella sua ideologia dalla quinta e, come questa, guarda a Occidente, ma opera nell’oscurità, preferendo colpire il regime dall’interno e non dall’esterno. Inoltre, proprio come la quinta colonna, la sesta colonna è controllata da un centro estraneo, da Washington, anche se la sua attività è più sottile e più sfumata rispetto a quella della quinta colonna. Il Cfr (Council of Foreign Relations) statunitense gestisce il sesto fronte. Tanto che tale ente è quasi ufficialmente rappresentato ai massimi livelli del governo russo. In generale, questa linea è partecipata da una gran parte del “governo liberale” nonché da un significativo segmento di altre istituzioni pubbliche.

Ora mettiamoci nei panni degli strateghi nordamericani. Il progressivo deterioramento delle relazioni tra Usa-Nato e Russia è ovvio. Mosca si è comportato come potenza regionale sovrana nei casi dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia nel 2008, della Crimea e del Donbass nel 2014 e infine della Siria nel 2015 e, se è necessario, userà il potere di insistere a favore dei propri interessi nazionali in determinati settori. Ma ciò è incompatibile con la continuazione dell’egemonia americana che è ancora globale. Mosca avrebbero dovuto costruire la sua politica conformemente ai desiderata di Washington e della Nato, senza per questo ottenere un annullamento delle sanzioni. Così, nonostante la cortesia superficiale e la retorica liberale, la Russia è fuori dal controllo dell’Occidente. E ‘ un dato di fatto. E Washington deve in qualche modo rispondere a questa sfida. Se non lo facesse, ciò equivarrebbe negare la propria egemonia. Ma in caso di declino, il dominio nordamericano tramonterebbe nel suo insieme. Incoraggiato da un eventuale successo dei russi, un Paese terzo qualsiasi potrebbe voler saggiare la forza degli Usa.
Ecco perché gli strateghi di Washington vogliono prevenire un tale scenario e, com’è logico, possono decidere di attivare tutti e sei i fronti. Soprattutto perché, in tutti e sei i casi, l’America non sarà vittima se stessa: anche il peggior risultato non causerebbe un suo fatale crollo, gli Usa, infatti, sono protetti da una vasta cintura di terre e mari. Dall’Europa centro-occidentale, dalll’Africa del Nord, dall’Atlantico, come pure dall’Oceano Pacifico a occidente (specialmente da quando non c’è nessuna russa attività nel suo lato est).
Sarà sufficiente sincronizzare i colpi alla Russia da tutti i lati: militanti in Siria, a sostegno della Turchia, offensiva di Kiev all’est (e anche per attaccare la Crimea), strutture terroristiche salafite in territorio russo, appoggio alla quinta colonna (trovando l’opportuno pretesto sociale). Infine nuovo ultimatum su nuove sanzioni per incoraggiare la sesta colonna a condurre un sabotaggio più attivo e in efficiente.

Allo stesso tempo, sarebbe altrettanto logico, dal lato nordamericano, mantenere e forse anche rafforzare le sanzioni, conservare il prezzo del petrolio ai minimi storici dall’80 a oggi per soffocare l’export di energia russo e, allo stesso tempo, iniziare ad attaccare la leadership russa con una nenia conciliante del tipo: “L’ Occidente vi aiuterà”, ” il terrorismo è un problema comune” o ” il problema principale è la Cina”, ecc.

Ma questa semplice stima analitica trascura qualcosa di molto grave.


La Guerra. Una vera guerra, con mari sanguinanti, incendi, tortura, sofferenza e dolore. La guerra in cui saremo coinvolti. E, visto che i primi tre fronti sono al di fuori della Russia, è già evidente che la guerra sui territori stranieri sarà accompagnata dalla guerra civile. Cosa che noi ben conosciamo, ricordando la storia.

Strategia vincente: nemico interno


Immaginiamo che la nostra stima dei rischi sia obiettiva e che la nostra analisi sia corretta.
Cosa dovrebbe fare la Russia in una situazione del genere?
Preparare la guerra o almeno essere pronti a questo evento.
Non dobbiamo reagire esclusivamente alle situazioni, ma possedere anche un piano su come intraprendere la guerra e vincerla. È del tutto logico avere il desiderio di vincere, non è vero? Ora è importante trovare il modo di realizzarlo, anche se qui è soltanto in gioco la teoria.

È ovvio che è possibile condurre efficacemente la guerra con un nemico esterno soltanto se la società è abbastanza solida e mobilitats internamente. Occorre essere mentalmente preparati per la guerra. Per fare questo, la gente deve capire chi è il nemico e chi non è, e, cosa ancora più importante, perché non è data una scelta. Non si deve demonizzare il nemico dopo l’inizio della guerra. L’ immagine del nemico deve essere formata in anticipo e deliberatamente.

Pertanto, il primo compito per ottenere la vittoria sarebbe l’opera di informazione e propaganda svolta da una vera e propria azienda per creareun’immagine degli Usa e dell’Occidente completamente negativa, mostruosa, satanica: l’Occidente è un luogo dove il diavolo risiede. È il centro del capitalismo globale e dei suoi tentacoli. E ‘ la matrice di ogni marciume e di ogni perversione culturale . Della falsità e del cinismo, della violenza e dell’ipocrisia.
L’Occidente già denigra la Russia in questo modo e la stessa Russia già reagisce con questi stesse accuse ma dato che la sesta colonna è responsabile per la propaganda anti-occidentale, l’operazione risulta una caricatura o comunque un qualcosa di infelice e non molto convincente.
E’ questo il sabotaggio posto in atto dal “sesto fronte”. Gli ordini del governo vengono posti in atto ma la loro esecuzione si è trasformata in una farsa, vanificando e sottilmente screditando tutta la mobilitazione. La cattiva propaganda – è un fatto – spesso produce l’effetto contrario.
Nel creare l’immagine del nemico americano e dei suoi satelliti (contro i quali siamo stati forzati a combattere) avrebbe dovuto essere logico indicare anche coloro che la pensano nello stesso modo per punirli con la massima chiarezza e risvegliare così le masse dei cittadini.
Invece, la critica all’Occidente è stata affidata ad agenti influenzati dall’occidente e partecipi dell’american way of life. Con risultati prevedibili. Un tale approccio è incompatibile con la “strategia per la vittoria” e dovrebbe essere riconsiderato (se la Russia vuole avere almeno una chance di vincere la guerra in arrivo).

Dal primo punto ci muoviamo logicamente per il prossimo. E ‘ importante per smantellare la sesta colonna rimuovere i liberali e i pro-occidentalisti da tutte le posizioni chiave. Insieme con esso, il liberalismo – liberismo – nell’economia sarà abolito e il che permetterà:

• La creazione di un controllo nazionale della banca centrale.

• L’uso, nel commercio con l’estero, di ogni moneta di riserva (come ad esempio la yuan) al posto del dollaro.

• Il raggiungimento della piena sovranità finanziaria.

• La gestione dell’economia programmata come in tempo di guerra.

In parallelo, è necessario formare un Comitato nazionale di garanzia per i mezzi di comunicazione di massa per costruire l’informazione in conformità con i requisiti di verità e di emergenza.

Le possibilità distruttive della quinta colonna sono in gran parte legate all’efficienza dei sabotaggi posti in atto dalla sesta colonna. Il quinto e sesto fronte (nemico) sono indissolubilmente legati. Pertanto, la distruzione della sesta colonna di ‘potere’ riuscirà drasticamente ad indebolire la quinta colonna, i cui leader, in situazioni di emergenza, potrebbe essere o internati (misure di arresti domiciliari sono già state decise per alcuni di loro), o espulsi. Naturalmente, ogni diffusione mediatica di propaganda liberale dovrebbe essere vietate.

Il quarto fronte è un problema, poiché lo Stato non ha alcuna base etnica e non sono previste politiche nazionali. Al momento, ai vertici regionali della Federazione vi sono rappresentanti definiti inappropriatamente burocrati in realtà esponenti della cosiddetta sesta colonna.
Questo è il motivo per cui le gravi sfide dell’immigrazione incontrollata e le tensioni etniche e religiose sono gestite dalla burocrazia con l’insignificante, per la realtà russa, vuoto doppio slogan della “Società civile” e della “tolleranza”. Senza un sistema coerente di etnia e strategia nazionale contro l’estremismo islamico e il terrorismo, la questione sociale in Russia non sarà risolta. Alcune misure di sicurezza non sono sufficienti; occore eliminare definitivamente o cambiare l’attuale ambiente sociale. Le operazioni contro l’integralismo terrorista devono essere correlate a motivazioni e soluzioni ideologiche, etniche e di politica nazionale.

La strategia vincente: nemico esterno


In Ucraina – il terzo fronte – si deve essere pronti a respingere le provocazioni di Kiev. Prima o poi, la Russia dovrà risolvere alle radici il problema della Novorossiya (le regioni orientali ucraine al confine con la Russia). D’altra parte o Kiev cadrà da sola immettendosi in una nuova guerra alle repubbliche indipendenti e per la Crimea, o dovrà abbandonare la sua irresponsabile politica pro-americana e anti-russa. Per tutelare efficacemente la Crimea e risolvere la questione del Donbass, tutto il territorio del Donbass deve essere liberato: se la guerra sarà inevitabile, Mosca avrà solo un compito, quello di vincere il più presto possibile e nel modo più efficiente possibile. Creando una regione amica e alleata della Russia da Odessa a Kharkov. Sia la creazione di stati indipendenti sia la loro inclusione nelle terre di Russia, saranno considerate come una vittoria. Il destino dell’Ucraina centrale e occidentale non è importante.

Per quanto riguarda il secondo fronte turco – oltre alle strategie operative militari, che non è compito degli analisti discutere – la Russia deve prestare attenzione a due fattori principali: la politica di opposizione al regime di Erdogan che, nelle circostanze attuali, è diventata un alleato naturale, e il problema fondamentale per la Turchia, i curdi. Entrambi i fattori sono fondamentali per il successo nel conflitto russo-turco. È estremamente importante una forte propaganda antiturca nella società russa, sottolineando che costantemente gli Usa e i suoi sostenitori (Erdogan) sono responsabili dell’escalation del conflitto della regione, e che Mosca, in ogni caso, non considera i turchi proprio nemico. E’ un fatto che qualsiasi parallelismo con la guerra russo-turca, anche in casi interni, serve, al contrario, soltanto ad unire le masse turche ad Erdogan e rafforzare il nemico. Al contrario, sostenere le opposizioni politiche turche contrarie al neo-ottomanesimo di Erdogan potrebbe essere decisivo. Allo stesso tempo, ovviamente, la Russia deve intensificare la collaborazione con i curdi, in quanto forza preponderante di opposizione in Turchia.

Infine il primo fronte, Siria. Non abbiamo accidentalmente messo la guerra in Siria alla fine della “strategia vincente”. La forma più acuta di conflitto, è sempre la più concreta e piena di dettagli tecnici e militari. Tuttavia, ogni cosa dipende sempre dalle indicazioni sociali, dai successi locali e dall’ambiente esterno.
Abbiamo visto che la Russia ha un importante alleato regionale, il mondo sciita, che è rappresentato principalmente da Iran e Hizbollah libanese. Si deve fare del nostro meglio per approfondire quest’alleanza. Ovviamente, non sono soltanto i russi che capiscono tale valore, ma anche le forze pro-americane in Russia o in Iran, che quindi cercano di fare tutto il possibile per riportare la divisione tra alleati. Dovrebbero essere combattute sul nascere.

Ancora. I russi hanno bisogno della politica, preferibilmente di alleanza militare e di sostegno economico, da parte dei paesi del gruppo multi-polare BRICS. La Cina svolge un ruolo speciale lì, preferendo non essere all’avanguardia nell’opposizione, ma comunque pronta a sostenere Mosca, rimanendo in disparte. Molte cose in Siria ora dipendono dalle relazioni Mosca-Pechino che hanno bisogno della massima attenzione.

La Russia non ha alcuna possibilità di rendere i paesi europei dell’Ovest a pieno titolo suoi alleati in Siria, in quanto l’influenza Usa su di loro è troppo grande. Tuttavia, qualsiasi allontanamento da Washington da parte delle potenze europee (soprattutto Francia, Germania e Italia) seminando differenze linee in seno alla Nato sarà molto utile a Mosca. Di questi tempi l’Europa continua a veder crescere l’ondata di partiti e movimenti populisti o di destra, generalmente amici alla Russia. La propaganda russa in Europa durante la guerra ha un’importanza particolare.

In Siria la Russia affronta forze apertamente sostenute da Arabia Saudita e Qatar. Poiché il Qatar è coinvolto nel disastro dell’aereo con i turisti russo abbattuto sopra il Sinai, la Russia deve prestare particolare attenzione alla destabilizzazione di tali regimi. In determinate circostanze, un attacco diretto al Qatar e l’aiuto militare agli Huthi nello Yemen, nonché agli sciiti in Bahrein, non può essere escluso. L’ invito di truppe russe in Iraq e in Libano dai rispettivi governi è di cruciale importanza strategica; esso contribuirà a condurre una guerra su vasta scala contro le basi principali dei terroristi dello Stato Islamico (Isis) e a spezzare le loro strutture di collegamento con la Turchia e i paesi del Golfo.

La Russia è già in guerra in Medio Oriente, e quindi deve essere riconosciuta la necessità di utilizzare l’intero arsenale dei mezzi a disposizione, ritalizzando, innanzi tutto, le reti di intelligence volte a promuovere gli interessi della Russia nella Regione (economici, ideologici, d’informazione).

Questa guerra ha un convitato di pietra: il dispositivo bellico militare russo. Un arsenale che, grazie a Dio, i “riformatori-liberali” degli Anni Novanta non sono riusciti a distruggere. E’ naturalmente buon senso comune il non usarlo mai. Temendo l’eventualità di una distruzione completa, gli Stati Uniti dovranno affrontarsi con la Russia nel rispetto delle regole.

Settimo fronte. I cittadini Usa contro il governo federale


E’ importante avere coscienza che esiste anche un settimo fronte. Quello partecipato da cittadini statunitensi che sono critici con un’elite che professa l’ideologia mondialista, gettando gli Usa in guerre sanguinose, oppure distruggendo la tradizione culturale europea. Questa “Nuova America”, che serve gli interessi dell’oligarchia finanziaria globale e che non ha alcuna cultura o identità, sta distruggendo la vecchia America.
Il sostegno alle forze tradizionali che negli Usa pretendono la tutela dell’identità americana è un compito importante per la Russia. Il suo alleato negli Stati Uniti è il popolo americano che denuncia le molte contraddizioni accumulate nella sfera sociale e nelle relazioni interetniche. La maggior parte della società americana non accetta la degenerazione morale. Il Governo federale utilizza ogni occasione per cercare di abolire, ad esempio, il secondo emendamento della Costituzione che permettendo agli statunitensi di tenere e trasportare armi.
Anche la crescente percentuale di popolazione di cosiddetti “latinos”, per lo più cattolici, può portare il pubblico americano a una nuova identità non è ostile alla Russia. La Russia dovrebbe coinvolgersi attivamente in campagne per influenzare positivamente la società americana, anche divulgando la posizione russa sulla guerra, perché i russi e gli americani hanno un nemico comune: una elite, maniaca e satanica, che ha usurpato il potere e sta portando l’intera umanità, compresi gli americani, verso l’inevitabile catastrofe.
I risultati delle azioni di questa elite sono evidenti: con l’intero Vicino Oriente è già coperto di sangue, non sono più in grado di stabilire un ordine qualsiasi. Anzi: l’elite globalista (il CFR, i neocons, l’oligarchia finanziaria di Wall Street), sta producendo ovunque soltanto caos, devastazione, morte e dolore.
La distruzione di un tale cancro che attenta all’umanità è un problema per il mondo intero. Anche per gli stessi americani, che non sono soltanto i suoi strumenti ma anche le vittime.

Dov’è la città?


È tutt’altro che facile vincere questa partita. Purtroppo il nome di questo gioco è “la Grande Guerra”. Tuttavia, quando la grande guerra bussa, può essere evitata solamente accettando la schiavitù con un deliberato riconoscimento della sconfitta. La storia russa non ha avuto momenti come questi. Per quanto possa sembrare strano, in qualche modo i russi la sono sempre cavata.

Non stiamo parlando esclusivamente del confronto geopolitico, ma anche della ridistribuzione delle sfere di influenza e la soddisfazione degli interessi nazionali. Si tratta di qualcosa di molto più profondo e importante.

Tutte le religioni hanno un capitolo dedicato alla fine dei tempi e la battaglia finale.
I cristiani, così come gli ebrei e i musulmani, associano gli eventi del ciclo con la grande guerra. Inoltre, invariabilmente tutte e tre le religioni descrivono il Vicino Oriente come il luogo della grande guerra, come il campo di Armageddon e i territori confinanti. Per i musulmani a Damasco, la grande moschea degli Omayyadi è considerata il luogo dove la seconda venuta di Cristo si terrà. Così la guerra in Siria possiede anche un senso escatologico. Dopo tutto la Siria è una parte della cosiddetta Terrasanta, dove il Salvatore ha fatto il suo ingresso nel mondo.
Anche per gli ebrei, in attesa dell’arrivo imminente di Moshiach, l’escalation della violenza in aree critiche per l’esistenza di Israele, ha un significato escatologico.
Tra i protestanti nordamericani, i cosiddetti “dispensazionalisti” considerano l’ultima battaglia come l’invasione di Gogh, l’esercito del Nord Gogh (inteso come la Russia), della terra santa.
Infine, i monaci del Monte Athos e i santi greci, come san Cosma Aeolian [1] o padre Paisios del Monte Athos, hanno ripetutamente predetto l’attacco delle truppe russe e il crollo di Costantinopoli e della Turchia. Sant’ Arsenios di Cappadocia in Faras aveva predetto ai fedeli la perdita della loro patria, che però verrà riacquistata:


“Giungeranno truppe straniere, crederanno in Cristo, non conosceranno la nostra lingua… Chiederanno: dov’è la città?” [ 2]. Una profezia che fa riferimento all’esercito russo in avvicinamento a Costantinopoli.
In una delle conversazioni padre Paisios ha detto: ” – so che la Turchia crollerà. Ci sarà una guerra tra due anni e mezzo. E sarà vittoriosa per noi ortodossi.
– Geronzio, possiamo tollerare danni durante la guerra?
– ehi, tutt’al più prenderà per sé una o due isole, ma ci restituirà Costantinopoli. Vedrai, vedrai!” [3]

Di recente, uno o due anni fa, tutte queste predizioni avrebbero provocato soltanto una scrollata di spalle: ‘che avola!’. Ma oggi: il sangue viene versato nel Vicino Oriente; ci sono operazioni militari intorno Damasco; i russi non sono una presenza virtuale, ma combattono in Terrasanta; il conflitto con la Turchia è iniziato e non può essere escluso che porterà ad una vera guerra. Secondo una prospettiva escatologica è giunto il tempo del ritorno ai luoghi santi, in terra santa, a Costantinopoli e a Kiev.
La dichiarazione che non stiamo vivendo nella fine dei tempi ora sembra non scientifico. Ma, come disse il Vecchio Paisiuse: “Vedrai, vedrai!”
Quindi, vedremo.

Dunque, dov’è la città?

Note
[1] Zoitakis A. Life and prophecies of Cosmas Aeolian, 2007
[2] Χριστόδουλος Αγιορείτης, ιερομοναχος. Σκέυος Εκλογής. Άγιον Όρος, 1996.
[3] Zoitakis A. Father Paisius told me…, 2003

http://katehon.com/it/article/verso-una-grande-guerra

martedì 22 dicembre 2015

AUGURI di un sereno Santo Natale, in famiglia, nel segno della Tradizione.


Identità, realismo ed autentica solidarietà.

 
Roberto Jonghi Lavarini (Destra Sociale) si è incontrato con il principe africano kiswahili Kevin Nyerere del Tanganika, figlio del presidente della Tanzania. Jonghi e Nyerere hanno convenuto sulla assoluta necessità di una vera cooperazione politica ed economica internazionale che crei lavoro, sviluppo e benessere in Africa e blocchi definitivamente il triste fenomeno dello sradicamento dei popoli e della immigrazione selvaggia verso l'Europa che non risolve  affatto i veri problemi, ma, anzi, li aggrava. I due personaggi, entrambi profondamente legati alle proprie tradizioni famigliari e nazionali, hanno anche convenuto sul sacrosanto diritto di tutti i popoli alla autodeterminazione ed alla difesa della propria identità etnica, culturale e religiosa.
 
 

La DESTRA SOCIALE in TV: in difesa dei risparmiatori, contribuenti e consumatori italiani.

 
Roberto Jonghi Lavarini (portavoce della Destra Sociale per Milano) ha partecipato a due interessanti ed animati dibattiti televisivi sul problema del fallimento di alcune banche locali e sull'attuale situazione del sistema economico e politico. Il rappresentante della Destra Sociale si è scagliato pesantemente contro il governo Renzi-Boschi e la maggioranza dei parlamentari che, a suo dire, citando una famosa frase del poeta ed economista Ezra Pound, sono solo "dei camerieri dei banchieri" che fanno solo gli interessi loro e dei poteri forti, fregandosene altamente delle reali esigenze del nostro popolo e della nostra nazione. Ai dibattiti della famosa trasmissione Iceberg, condotta dal giornalista Stefano Golfari, su Telelombardia, erano presenti altri importanti opinionisti come il direttore Emilio Fede, la giornalista del Sole 24 Ore, Sara Monaci, il mitico blogger e youtuber Lorenzo Lambrughi che con i cliccatissimi video di denuncia, da veramente voce al popolo italiano. Jonghi ha ben difeso i sacrosanti diritti, non solo dei circa diecimila cittadini truffati dalla banche ma di tutti i risparmiatori, contribuenti e consumatori italiani che devono essere sempre correttamente informati dalla controparte e sempre tutelati dalla istituzioni.
 
 

 
ROBERTO JONGHI con EMILIO FEDE e LORENZO LAMBRUGHI

 
 
 
 
 

mercoledì 16 dicembre 2015

Roberto Jonghi (DESTRA SOCIALE) in Televisione.


 
venerdì 18 dicembre ore 20.30-23.00

 ROBERTO JONGHI LAVARINI (DESTRA SOCIALE)

ospite ad ICEBERG su TELELOMBARDIA...

trasmissione condotta dal giornalista Stefano Golfari,
a parlare della situazione economica e politica nazionale
 
NB
In contemporanea andrà in onda una intervista a Roberto Jonghi, sul sistema bancario italiano, anche su TELEREPORTER, per la trasmissione LA VOCE condotta dal giornalista Vladimiro Poggi

Seguici sulla nostra pagina FACEBOOK, sempre aggiornata su tutto, e clicca MI PIACE!
https://it-it.facebook.com/DestraPerMilano
 

martedì 15 dicembre 2015

Rassegna Stampa - Lettera43

Le Pen sconfitta spacca la destra italiana

Fn battuto. Così per le nostre Comunali del 2016 i profili più radicali tramontano. Salvini e Meloni in difficoltà. Risalgono Marchini a Roma e Passera a Milano.

di    -  14 Dicembre 2015
 
Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini.
(© Imagoeconomica) Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini.
La sconfitta al ballottaggio del Front national di Marine Le Pen in Francia crea non pochi problemi nel centrodestra italiano in vista delle elezioni amministrative del 2016.
Se fino a una settimana fa, dopo i primi risultati, il leader della Lega Nord Matteo Salvini e quello di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni già rivendicavano il diritto di scegliere i candidati, con profili più radicali e di destra, ora la situazione si è ribaltata.
SARKÒ RISCRIVE TUTTO. L'affermazione di Nicolas Sarkozy, leader resuscitato, ha innescato subito la reazione di Forza Italia, con gli azzurri già sul piede di guerra nel chiedere a Silvio Berlusconi di virare su toni più moderati.
La manifestazione di Bologna di inizio novembre è ormai un lontano ricordo.
Lo scenario è in continua evoluzione.
Ma iniziano a intravedersi nuove spaccature, in particolare a Roma e Milano.
Tutto infatti gira intorno alla candidatura della Meloni nella Capitale, come alle reali intenzioni di Salvini sul capoluogo lombardo: scendere in campo in prima persona o no?
MARCHINI INDIGESTO. La leader di Fdi non vuole digerire Alfio Marchini, che però a questo punto sembra sempre di più in rampa di lancio, a meno che Giorgia non voglia correre da sola.
Anche perché, ragionano gli ex missini, «una situazione come quella francese non potrà mai esserci in Italia, la destra da noi è troppo spaccata, l'unica speranza è correre uniti, se si ci riesce...».
SFIDA MELONI-SALVINI. Del resto, proprio la Meloni, negli ultimi tempi, in gran segreto si stava organizzando per fare concorrenza politica a Salvini, allo scopo di riprendersi quel consenso elettorale di destra andato alla Lega, in mancanza di alternative, negli ultimi mesi.
In politica gli spazi vuoti vanno riempiti e, dopo la scomparsa di Alleanza nazionale nel Popolo della libertà berlusconiano, quella fetta di elettorato aveva trovato nella nuova Lega di Salvini l’unico referente in campo. 

La spinta nazionale salviniana non c'è

Una felpa dedicata a Salvini in Sicilia.
(© Ansa) Una felpa dedicata a Salvini in Sicilia.
La Lega si è posizionata a destra di recente, solo in occasione delle elezioni europee del 2014.
Ma la spinta nazionale salviniana continua a non esserci.
Il partito 'Noi con Salvini' non decolla.
E qua e là, dalla Puglia al Lazio, continuano i malumori.
IL 15% PICCO MASSIMO? Certo, la Lega è ancora data al 15 % nei sondaggi, mentre Fratelli d'Italia a meno del 5%.
Ma, di settimana in settimana, questo divario si accorcia.
O meglio, la Lega sembra avere perso forza propulsiva. In sostanza pare aver raggiunto il massimo del consenso possibile.
MARINE OLTRE IL 30%. Non si possono certo fare paragoni con la Francia dove Marine Le Pen è volata oltre il 30%.
Sono mondi opposti, anche perché quell’elettorato di destra o anti-sistema è troppo diviso fra gli ex Alleanza nazionale, la Lega appunto, ma anche il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo.
FASE DI STALLO AL NORD. Non solo. In questo momento la Lega è in fase di stallo al Nord, dove la maggioranza della base militante, che ha nel vecchio e potente ex ministro Roberto Calderoli il proprio referente, non ne vuole sapere di rinunciare alla propria identità padana e secessionista.
E allo stesso tempo i padani sono in cirisi al Sud dove il movimento 'Noi con Salvini' è una miscellanea di gruppi e provenienze diversissime fra loro, spesso persino antitetiche, che non riesce a darsi una organizzazione e rappresentanza stabile, condivisa e credibile.

Rottura padana con CasaPound

Manifestanti di CasaPound.
Manifestanti di CasaPound.
Infine a destra c'è poi il problema CasaPound, che nonostante abbia subito approfittato della svolta salviniana per ottenere visibilità e riconoscimento politico, creando anche la sigla politically correct 'Sovranità', non riesce a ottenere assicurazioni concrete dalla Lega.
Anzi, Salvini ha già iniziato a prendere le debite distanze dai “fascisti del terzo millennio” e detto chiaramente che, alle elezioni amministrative - a Milano e in tutto il Nord - ci sarà solo la Lega.
E che la lista Salvini continuerà a occuparsi autonomamente del resto d’Italia. Marco Tarchi, professore all'Università di Firenze, politologo, esperto di populismi, non vede rotture: «Non credo. A parte il fatto che, stando agli ultimi echi di manifestazioni pubbliche, il rapporto fra Casa Pound e Salvini non si è interrotto, è semmai al secondo che converrebbe staccarsi dai primi. Stiamo parlando di un partito dato da alcuni sondaggi al 16% e di un movimento che elettoralmente è allo stato pulviscolare. Quanto a Fratelli d'Italia, rischia di faticare a raggiungere la soglia di sbarramento prevista dalla nuova legge elettorale; in caso di rottura con la Lega, rischierebbe fortemente di essere penalizzata dalla logica del 'voto utile'».
NE APPROFITTA FDI. In ogni caso ad approfittarne potrebbe essere Fratelli d’Italia che ha lanciato un congresso ri-costituente della destra italiana, con la benedizione dell'intellettuale Marcello Veneziani e la creazione di una sigla aperta alla società civile come 'Terra nostra'.
GIORGIA CON DUE MISSINI. Non solo, a recuperare e presidiare la destra dura e pura, Meloni ha ingaggiato due noti missini doc: l’ex segretario nazionale della Fiamma Tricolore, Luca Romagnoli (già eurodeputato e amico di Jean Marie Le Pen) e il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini (il primo a schierarsi con la Lega alle elezioni europee 2014) che hanno dato vita al movimento fiancheggiatore Destra sociale, lanciato proprio a Milano.
SILVIO STA CON PASSERA? In tutto questo Silvio Berlusconi continua a tacere, forte del patto del Nazareno con Matteo Renzi.
Ma gli scricchiolii sulla candidatura di Giuseppe Sala, il candidato renziano a Milano, stanno convincendo a l'ex Cavaliere a virare su Corrado Passera, il leader di Italia unica.
E questo sarebbe un candidato che né la Lega né Fdi potrebbero digerire. A quel punto la spaccatura sarebbe totale.  «Anche se il modello Le Pen non è esportabile» conclude Tarchi « certamente a Salvini conviene tenersi ben stretta l'alleanza tattico-strategica che ha messo in piedi, e soprattutto mantenere la linea populista, in prospettiva molto più ricca di consensi della convergenza con ciò che resta del Pdl».
 

lunedì 14 dicembre 2015

Francia: una storica vittoria del Fronte Nazionale!

 
Parliamoci chiaro, al di là dell'entusiasmo iniziale e del naturale tifo politico, era evidente a tutti che vincere al secondo turno delle elezioni regionali francesi sarebbe stato molto difficile. Ma quello del FRONT NATIONAL è, comunque, un risultato storico, grandioso ed incontrovertibile: da solo, contro tutto il sistema (l'arco costituzionale giacobino ed antifascista, i partiti di sinistra-centro-destra, i vertici economico finanziari internazionali ed il 95% di giornali, radio e tv) si conferma e consolida come primo partito popolare ad oltre il 30% dei consensi elettorali dei francesi. MARINE LE PEN rafforza così la sua candidatura, alternativa e nazional-popolare, alle prossime elezioni presidenziali, dove i suoi oppositori di oggi, si presenteranno inevitabilmente divisi. Non solo, la vittoria immediata del FN è genuinamente e concretamente politica: le sue idee e proposte (in tema di immigrazione, sicurezza, giustizia sociale e sovranità nazionale) sono ora al centro del dibattito politico nazionale ed europeo, e, tutti, persino i socialisti, ora inseguono e copiano i programmi della figlia del "vecchio leone" Jean Marie Le Pen. Chiamatela pure sconfitta, se la cosa vi piace e ne siete veramente convinti... ;-)

RASSEGNA STAMPA (AFFARI ITALIANI).

Giorgia Meloni come Marine Le Pen: nasce a Milano Destra Sociale

Si è tenuta a Milano la riunione dell'Alleanza europea dei movimenti nazionali, con lepenisti e gruppi Pro Putin. Sancita la nascita di Destra sociale che, sull'onda del successo di Marine Le Pen in Francia, ambisce a riunire attorno a Giorgia Meloni tutti gli elettori che furono di Msi e An. Con vista già su Milano 2016...

Articolo di AFFARI ITALIANI
 
Milano ha ospitato giovedì una riunione promossa dalla Aemn, Alleanza europea dei movimenti nazionali: promotori dell'iniziativa l'ex segretario della Fiamma Tricolore, Luca Romagnoli, docente di geopolitica alla università La Sapienza di Roma e presidente della fondazione Identità e Tradizioni Euoropee, e Roberto Jonghi Lavarini, delegato italiano del World National Conservative Moviment, WNCM, gruppo internazionale pro Russia di Putin, con sede principale a San Pietroburgo. Presenti i rappresentanti di una decina di movimenti europei, fra i quali anche del Front National francese di Marine Le Pen, del movimento ungherese Jobbik e del British National Party. I due noti esponenti della ultra destra hanno deciso di aderire al congresso “ri-costituente” di Fratelli d’Italia 2.0 che si terrà la prossima primavera, promosso da Giorgia Meloni e da Marcello Veneziani, responsabile culturale della fondazione Alleanza Nazionale.

 

RASSEGNA STAMPA (LEFT)

La destra italiana sul carro di Le Pen. Tutti gli aspiranti lepenisti
 
Articolo di TIZIANA BARILLA - LEFT
 
Come prevedibile, la destra italiana prova a cavalcare l’onda lepenista d’Oltralpe. I risultati di Marine Le Pen e del Front national alle regionali francesi del 6 dicembre ci dicono che gli esclusi francesi hanno scelto lei, inutile negarlo. «Domenica, il popolo francese ha fatto vacillare l’oligarchia, le sue certezze, la sua indifferenza, la sua arroganza», ha dichiarato madame Le Pen, che butta paglia sul fuoco nello scontro fra centro e periferia, emarginati e garantiti. La dicotomia popolo-élite, nel populismo lepeniano, prende il posto di destra-sinistra. E la destra italiana già monta la sella per cavalcare e sono tanti i pretendenti “cugini” di Marine Le Pen.
Il primo a tentare di intestarsi la vittoria francese è Matteo Salvini. Con le sue forze, la Le Pen ha più volte manifestato le sue simpatie per il leader padano. Ricordate il «Mi manda in estasi» che la leader del Front national ha ammesso all’indomani delle Europee di maggio? Ecco, e poi conta pure sull’affetto di papà Jean-Marie. E con le sue debolezze, che stanno proprio nell’essere il leader padano. La Lega Nord di Salvini è cosa assai lontana dall’identitarismo nazionalista della Le Pen, toccherà capire quanto abbia azzeccato con le sue manovre di vicinanze a movimenti come CasaPound e con il progetto Noi con Salvini per accaparrarsi il Mezzogiorno.
Nel lepenismo vincente, si butta pure Luca Romagnoli. Il suo grado di “discendenza dai Le Pen? Romagnoli è stato eurodeputato con Jean Marie Le Pen, oltre che segretario nazionale della Fiamma Tricolore di Pino Rauti. E adesso sperimenta la “Destra possibile”. La chiamano così, loro, l’estrema destra lepenista. Il 10 dicembre Romagnoli è sbarcato a Milano dove, a porte chiuse, ha incontrato rappresentanti di una decina di movimenti europei. La riunione organizzativa, promossa dall’Alleanza europea dei movimenti nazionali (Aemn), ha visto la partecipazione del Front National francese, del movimento ungherese Jobbik e del British National Party. Al suo fianco il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini, portavoce lombardo della Destra sociale e delegato italiano del World national conservative moviment (Wncm), con sede in Russia, a Sanpietroburgo.
Mentre con la mano europea, la Destra Sociale, prova a mettere il cappello tricolore sul lepenismo, con la mano italica, ha deciso di partecipare al congresso ri-costituente della destra italiana promosso da Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, e Marcello Veneziani, presidente del comitato culturale e scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. «Nostro dovere, in questo momento storico, è fare fronte anche in Italia, partendo, dalla necessaria riunificazione della destra nazional-popolare», ha dichiarato Luca Romagnoli.
Infine, non resta a guardare Gianni Alemanno che lo scorso ottobre ha organizzato la “Leopolda” di Orvieto per lanciare il manifesto del lepenismo per la destra italiana: il “Manifesto della rivoluzione italiana contro la crisi e il declino”. Per l’ex sindaco di Roma «del lepenismo riprendiamo i temi della difesa dell’interesse nazionale contro l’immigrazione di massa e contro i vincoli dell’euro e del commercio globale». Senza scordare che, nella scalata lepenista-populista, c’è un altro competitor da non sottovalutare. Con Beppe Grillo, padre dell’anticasta e della guerra tra ultimi e penultimi, dovranno pure fare i conti.
La costruzione del fronte nazionale, per seguire la linea europea di Marine Le Pen, è in corso. E la partita per assumerne la guida è già cominciata. Quando la sinistra non c’è, i topi ballano.
 

venerdì 11 dicembre 2015

Roberto Jonghi (Destra Sociale) in Televisione.

 
Questa sera venerdì 11 dicembre ore 20.30-23.00

ROBERTO JONGHI LAVARINI (DESTRA SOCIALE)

Ospite ad ICEBERG su TELELOMBARDIA...

trasmissione condotta dal giornalista Stefano Golfari

si parlerà di banche in Italia e in Europa...
 

giovedì 10 dicembre 2015

La DESTRA SOCIALE riparte da Milano!

 
Grande successo per la visita milanese del portavoce nazionale della Destra Sociale, On.Prof. Luca Romagnoli, già eurodeputato, ora presidente della fondazione Identità e Tradizioni Europee (ITE), a sua volta emanazione culturale del movimento politico Alleanza Europea dei Movimenti Nazionali. L’esponente politico, accompagnato da Vincenzo Mancusi, ha avuto una serie di importanti incontri riservati con i vertici politici ed istituzionali del centrodestra lombardo ma anche con esponenti del mondo economico e professionale. Padrone di casa è stato Roberto Jonghi Lavarini, presidente di “Destra per Milano”, storico movimento civico nazional-popolare (fondato nel 2000) che ha deciso di aderire al progetto nazionale della Destra Sociale.

Nel pomeriggio vi è stata una riunione organizzativa dei dirigenti locali della Destra Sociale del nord Italia, presieduta dal coordinatore lombardo Jacopo Bianchi di Como, e da quello del TriVeneto, Carlo Chiavegatti di Trieste. Da segnalare anche un fortuito incontro con l'ex assessore Carlo Borsani.

Momento culmine della intensa giornata politica è stato il dibattito “La destra possibile. Iniziamo a fare fronte, partendo da Milano” che si è tenuto nella Libreria Ritter, del sempre disponibile editore militante Marco Battarra.

 Gli intellettuali d’area, Renato Besana (giornalista di Libero quotidiano e promotore, insieme a Marcello Veneziani, del progetto Itaca) e Marco Valle (brillante scrittore ed oratore, già storico segretario del Fronte della Gioventù) hanno ricordato le fondamenta culturali che devono essere al centro dell’azione di una nuova destra post-moderna. Interessante la relazione di Gino Salvi, presidente del circolo culturale Giorgio Almirante di Genova, che ha rimarcato i valori di riferimento di una destra che sia d’avanguardia, pur mantenendosi nel solco della tradizione. Gli autorevoli esponenti di Fratelli d’Italia - Alleanza Nazionale, onorevoli Carlo Fidanza e Paola Frassinetti (coordinatrice regionale della Lombardia), hanno fatto una breve cronistoria del loro movimento, confermandone il saldo posizionamento a destra e le aperture di Giorgia Meloni che ha lanciato un congresso, aperto e ri-costituente, che si terrà nel marzo 2016. Luca Romagnoli ha quindi sottolineato la coerenza di chi, dopo avere militato nella Fiamma Tricolore, oggi ha deciso, con patriottico senso di responsabilità, di aderire a questo ambizioso progetto di riunificazione, rinnovamento e rilancio della destra sociale italiana.

Roberto Castiglioni ha portato il cordiale saluto dell’avvocato Gian Piero Maccapani e del movimento Libertà Nazionale di Varese. Il presidente onorario di Destra per Milano, conte Alessandro Romei Longhena, ha invitato a riscoprire quello spirito militante che univa la “comunità di credenti e combattenti” della Giovane Italia e del Movimento Sociale. Il comandante Mauro Melchionda ha lanciato a tutti i gruppi dell’area, nessuno escluso, un forte appello alla unità, anticipando una apposita tavola rotonda che si terrà ai primi di febbraio. Nella sala, gremita di entusiasti patrioti, tantissimi volti noti, fra questi: il capitano Francesco Lauri, lo storico Pierangelo Pavesi, il conte prof. Giuseppe Manzoni di Chiosca e Poggiolo, il consigliere Paolo Roccatagliata e persino Don Orlando, sacerdote e cappellano del Campo X della RSI.

lunedì 7 dicembre 2015

FARE FRONTE anche in ITALIA !

 
Il FRONT NATIONAL primo partito in Francia con il 30% dei consensi elettorali. La destra (nazionale, popolare, sociale, radicale e identitaria) francese in testa in sei regioni su tredici. Le candidate Marine e Marione Le Pen superano il 41%. Questa è la storica vittoria della Francia profonda e del suo paladino Jean Marie Le Pen. Vince un destra vera, libera e coerente, che parla chiaro, che non ha complessi di colpa storica o di inferiorità culturale. In Francia, come i tutta Europa, vince la destra che noi abbiamo sempre voluto e sostenuto. Ora anche in Italia dobbiamo: unire la destra intorno a Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni e fare fronte con la Lega Nord di Matteo Salvini.
 
 

Storia del Fronte Nazionale francese.


 
Dall’ Algérie française all’antiglobalismo

Il Front National francese.

Del Front National il grande pubblico italiano in realtà sa poco o nulla. Chi sono e cosa vogliono? Sono antieuropeisti e chiedono meno immigrazione. Ma danno voce a un ceto medio declassato e ad una classe operaia impaurita che non si sente protetta dai governi. Temuto, demonizzato e ostracizzato, non sarà inutile, allora,  tracciare la storia del Front National (FN) a partire dalla fondazione del movimento che è l’organizzazione di riferimento della destra sociale francese da oltre quarant’anni. Innanzitutto devo premettere che le radici “lontane” del Front National affondano nei Cercle Proudhon, che s’ispiravano al sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel (1847 – 1922), nel Parti Populaire Français di Jacques Doriot (1898 – 1945) e nel Rassemblement National Populaire di Marcel Déat (1894 – 1955), da un lato, nella Repubblica di Vichy, dall’altro. Mentre per quel che concerne le radici “prossime” esse partono dalla candidatura di Jean-Louis Tixier Vignancour (1907 – 1989), alle presidenziali del 1965. Tixier Vignancour era stato l’avvocato difensore del generale ribelle Raoul Salan (1899 – 1984) dell’OAS, ossia dell’Organisation de l'armée secrète, e, cioè, l’organizzazione clandestina il cui slogan era “L'Algérie française” e che si oppose all’indipendenza del paese nordafricano.  Nonostante l’insuccesso elettorale di Tixier Vignancour, i cui consensi arrivarono soltanto al 5,2 %, venne gettato un seme che germogliò sette anni dopo. Infatti, il 5 ottobre del 1972 nasce il Front National su iniziativa dei dirigenti di Ordre Nouveau, formazione nazionalista – rivoluzionaria nata nel ’69 come filiazione di Jeune Nation e Occident, movimenti sciolti dal Ministero dell’Interno per ragioni di ordine pubblico.perciò, ON, che al suo apogeo conta 5000,  dal 1971 opta per la partecipazione elettorale. Il risultato deludente delle municipali parigine di quell’anno induce ad un ripensamento strategico e, nel biennio successivo, si intensificano i contatti con le altre componenti della destra radicale (i nazionalisti antiatlantici nell’orbita del mensile “Militant” e del Parti de l’Unité française, i conservatori cattolici e i  reduci di Vichy e dell’Algeria). L’obiettivo è il varo di una federazione che, a partire, dalle legislative del 1973 emuli i successi del Movimento Sociale Italiano, che, proprio nel maggio di quell’anno aveva ottenuto il suo maggior risultato elettorale di sempre, con l’8,7% alla Camera e il 9,2% al Senato. E, sempre dall’MSI italiano venne mutuata la fiamma tricolore quale simbolo del movimento. Alla presidenza del FN viene scelto, nel dicembre del ’71, Jean-Marie Le Pen. Ritiratosi dalla vita politica e considerato dai dirigenti di ON un moderato e un legalista, la designazione di Le Pen nonostante la sua indubbia appartenenza al mondo della destra radicale (poujadismo, antigollismo, tixierismo e frequentazione del Centre National des Indépedendants e Paysans) avviene nell’ottica del compattamento della destra nazionale francese. Le Pen viene affiancato da un vice presidente (François Brigneau) e da un segretario generale (Alain Robert), appartenenti a ON, oltre che Pierre Bousquet, nominato tesoriere. Nel ’73, in seguito al fallimento del FN alle legislative del 4 marzo (o,52% dei voti, presentando 115 candidati, la metà dei quali nella regione parigina) fuoriesce la componente di ON che continuerà ad esistere fino allo scioglimento, decretato dal Consiglio de ministri il 24 giugno per ragioni di ordine pubblico. Questa defezione causò nel FN la rottura dell’esperienza collegiale di ON e prese quota un’impronta presidenziale. Nonostante ciò la figura di Le Pen non riuscì ad attrarre l’elettore medio (0,74%) alle presidenziali del 1974 (candidatura, quella di Le Pen, sostenuta soltanto dal settimanale pétainista “Rivarol” e dai “Cahiers européens” dell’esponente nazionalista rivoluzionario François Duprat). Duprat (1940 – 1978) è uno storico e intellettuale militante  nazionalista – rivoluzionaria che ha avuto un ruolo cruciale nei primi anni del FN essendo stato l’estensore, nel ’71, del manifesto Pour un FN e, poi,  l’artefice del programma. Alla frammentazione dell’area politica contribuiscono anche la candidatura del monarchico Bertrand Renouvin, di Jean Royer alle presidenziali del ’74, e l’appoggio del periodico “Minute” e degli ex di ON a Valéry Giscard d’Estaing. Mentre, nello stesso periodo, il Parti des forces nouvelles (PFN), iniziativa elettorale dei reduci di ON, ingaggia con un FN debole, diviso, indebitato e privo di ampia militanza, una gara di visibilità. E, la prima affermazione della presidenza di Le Pen, insidiata dalle ambizioni di Alain Robert (ON), avviene non in un passaggio congressuale e in virtù del carisma dell’acclamazione, ma attraverso un contenzioso giudiziario sull’uso del nome e del simbolo. Inoltre quattro elezioni si risolvono in un fallimento: dalle legislative del 1978 (0,33% dei voti) alle europee del ’79, alle presidenziali dell’81 e, infine, alle legislative dell’81. Era andata, alle legislative del ’78, leggermente meglio a Le Pen che, nel quinto collegio parigino, ottenne un 3,9% comunque inutile ai fini dell’elezione. Contemporaneamente si verificano, il 18 marzo del ’78, la morte violenta e mai chiarita di Duprat, a cui segue un’emorragia di militanti che Le Pen non riesce a tamponare, e l’ascesa ai vertici di Jean Pierre Stirbois, leader dei gruppo dei “solidaristi”.  Dunque, il FN, fino al 1984, non va mai oltre lo 0,74% dei voti su scala nazionale. E, in generale, la destra radicale riesce a varcare la soglia dell’1% in un unico caso:  alle europee del ’79, quando l’Union Française pour l’Euro – droite, rappresentata da Tixier Vignancour e sostenuta dai rivali del Parti des forces nouvelles, ottiene l’1,3%. Il cartello elettorale della destra radicale realizza, quindi, un leggero progresso rispetto alle performance abituali dell’area politica. La parabola discendente è, poi, confermata quando, nel 1981, Le Pen non riesce ad ottenere le 500 firme per il patrocinio della candidatura alle presidenziali e dal magro bottino dello 0,18% alle legislative. Anche se una prima, lieve inversione di tendenza si era verificata alle cantonali del ’79, quando Jean Pierre Stirbois raccoglie a Dreux il 10%. Questo dato è confermato alle cantonali dell’82, quando, a Dreaux – Ovest, Stirbois raccoglie il 12,6% dei suffragi, mentre a Dreaux – Est la coniuge Marie – France raccoglie il 9,6%. Questa lieve inversione di tendenza prosegue alle municipali del marzo ’83. In alcune città, i candidati frontisti erano entrati in liste civiche e alcune alleanze con la destra moderata erano valse il 5% in una ventina di centri con più di 9.000 abitanti. Altro risultato degno di nota è l’elezione di Le Pen a consigliere nel ventesimo arrondissement parigino, grazie all’11,3% de voti. E, a proposito di Le Pen, parallelamente a questa creascita, comincia, all’interno del movimento, quella riorganizzazione che consoliderà, nel tempo, le centralità della presidenza di Le Pen. Riorganizzazione che, a ben vedere, era già iniziata dopo le defezione della componente di ON. Quando il presidente, praticamente inamovibile per statuto, era stato posto sulla sommità di una struttura ipercentralizzata che, nel nome delle procedure e degli organismi (Congrés, Comité Central, Bureau Politique), ricalcava quella del MSI italiano. Il circolo virtuoso per il FN inizia nel 1983 quando, ancora a Dreux, il 4 settembre, la lista del FN, guidata da Stirbois, ottiene il 16,7% al primo turno delle municipali. Stirbois, che ha condotto una campagna dai forti accenti anti – immigrazione, raggiunge una accordo con la destra gollista e liberale dell’RPR e dell’UDF. Per cui, l’11 settembre la coalizione di destra sconfigge il sindaco uscente Fraçoise Gaspard. Altri due risultati indubbiamente salienti sono quelli di Aulnay – sous – Bois, il 6 novembre, in occasione di una municipale suppletiva e quello della legislativa suppletiva di Auray, l’11 dicembre. Mentre, a distanza di sei mesi, si verifica il primo risultato significativo su scala nazionale. Alle europee del 17 giugno 1984, la lista Front d’opposition nationale pour l’Europe des patries ottiene oltre due milioni di voti che le valgono l’11% dei suffragi e 10 seggi. Questo innegabile balzo in avanti è dovuto alla comparsa di nuovi temi elettorali quali il lancio, nel giugno 1982, da parte dell’esecutivo socialista, del primo piano di austerità che aveva comportato il blocco dei salari; l’immigrazione el’insicurezza. In particolare dopo le europee del giugno 1984, il FN prende pienamente in carico il problema dell’immigrazione. Temi che conquistano la centralità nel dibattito pubblico presso la destra moderata ma anche tra i socialisti (il 5 settembre 1984, il Primo ministro socialista Laurent Fabius dichiara, su Antenne 2, che “Le Pen dà cattive risposte a buone domande” ) e, persino, nei comunisti. E, in particolare, si pensi all’equazione immigrazione – insicurezza. Sempre, nell’84, il 13 febbraio si ha la consacrazione carismatica di Le Pen, in occasione della sua partecipazione all’Heure de vérité, trasmissione serale di Antenne 2. Parallelamente, cresce il radicamento territoriale del FN. A partire dal caso di Dreux, laddove i coniugi Stirbois sono lentamente riusciti a costruire una posizione elettorale, attraverso un intenso lavoro di radicamento ed uno sforzo di mobilitazione. Grazie a questo legame con il territorio, nel 1989, Marie – France Stirbois prevarrà con il 61,3% ad una legislativa suppletiva. Aggiudicandosi un seggio parlamentare in una competizione uninominale, compie un’impresa che, nella storia del FN, è stata eguagliata solo da Yann Piat (1988), Jean – Marie Le Chevallier (1997), Marion Maréchal – Le Pen e Gilbert Collard (2012). Tra l’altro nell’evento del 16,7% raccolto da Stirbois nelle municipali suppletive del 1983, c’è un dato politico originale: al secondo turno, il FN stringe un accordo on la destra moderata – liberale RPR/UDF e ottiene così sette consiglieri ed entra nella giunta municipale. Successivamente, alle elezioni cantonali del 1985, il FN dimostra di non essere il frutto di una protesta passeggera, apre le liste a personaggi esterni ed a militanti insoddisfatti dell’RPR e dell’UDF, presentando candidati in ben 1521 cantoni e su 2044 e l’esito è positivo: 8,8%.  La stessa politica di apertura delle liste viene riproposta per le legislative del 1986 e il FN invierà 35 deputati all’Assemblea nazionale, grazie al sistema proporzionale. E, nel contempo, la “coabitazione” del governo gollista di Jacques Chirac con il presidente socialista François Mitterrand consente al Fn di presentarsi come unica vera opposizione non solo ai socialisti e ai comunisti ma, anche alla destra moderata e liberale. A partire da quel momento il FN enfatizza il proprio ruolo di partito di protesta. Una strategia che consente a Le Pen di arrivare al massimo storico in occasione delle presidenziali del 1988 quando ottiene il 14,4% e in 124 circoscrizioni su 555 Le Pen supera i candidati della destra moderata e liberale (Chirac e Raymond Barre). Perciò, il potenziale elettorale frontista diventa essenziale per la destra moderata e liberale . Infatti, alle legislative del mese successivo (questa volta di nuovo con il tradizionale sistema maggioritario a doppio turno), pur arretrando sensibilmente rispetto alle presidenziali (9,5%: -4,9%), soprattutto a causa dell'elevato astensionismo, la majorité realizza un accordo con il FN. Nella regione marsigliese, dove il FN è particolarmente forte, i moderati e liberali ritirano i propri candidati in 8 circoscrizioni a favore del candidato del FN e il Front ricambia in altre 8. Questo accordo, il primo alla luce del sole dopo Dreux, rappresenta una vittoria politica per il FN: finalmente è stato accettato, apertis verbis, dalla destr moderata e liberale ed ha ottenuto una legittimità come potenziale partito di governo, cosa che Le Pen ricercava fin dal primo programma elettorale del 1973.  È però una vittoria di Pirro perché solo in un caso viene eletto un parlamentare frontista. Gli elettori moderati si rifiutano, infatti,  di sostenere un candidato frontista, mentre gli elettori frontisti si rivelano molto disciplinati. Le elezioni presidenziali del 1988 rappresentano uno degli apogei delle fortune elettorali del FN. La capacità di attrazione sull'elettorato gollista, nazionalista e conservatore, infastidito dalle aperture di Chirac sia sul piano interno (modernizzazione e liberalizzazione) che su quello internazionale (europeizzazione e inefficace difesa del prestigio della Francia) sembrano garantire al Front  un ruolo sempre più rilevante nel sistema partitico francese. Inoltre il FN procede nella sua marcia verso la “nazionalizzazione del consenso”, cioè una diffusione dei suffragi omogenea sul territorio nazionale, e il radicamento organizzativo. A proposito di quest’ultimo, si deve accennare al compimento della riorganizzazione del partito nel 1988 che incardina i comitati elettorali dipartimentali in una struttura politica gestita in modo verticistico. Per cui alle elezioni municipali del 1989 il FN riesce ad essere presente in 143 città  sulle 219 sopra i 30.000 abitanti, in 214 sulle 390 tra 20 e 30.000 e in 306 sulle circa 900 tra 2.000 e 9.000. Il risultato delle urne permette al FN di impiantarsi localmente: dai 211 consiglieri eletti nel 1983 passa a più di 1.000. E, soprattutto, questa volta il Front ha corso da solo contro tutti, senza stringere nessun accordo. Un passaggio importante nelle vicende del Fn è il congresso di Nizza (1990). Per la prima volta si tiene un Congresso per delegati (benché aperto anche a molti militanti), con una partecipazione molto estesa (circa 1600 persone); ma soprattutto viene lanciata una nuova strategia, ben più ambiziosa di quelle precedenti: solo il Front si erge come contraltare al potere socialista. Una strategia ambiziosa che sembra trovare consenso nell'elettorato. E infatti i risultati non mancano. Alle regionali (13,9%) e alle cantonali (12,4%) del 1992 il FN si installa definitivamente come forza politica nazionale: presenta candidati in quasi tutti i cantoni (1.868 su 1.945) e si propaga oltre i suoi bastioni di forza, tanto che solo in 29 dipartimenti su 96 è sotto il 10% (contro i 66 del 1988). E, questo nonostante la “quarantena repubblicana” adottata dalla destra classica. Al punto che, durante le presidenziali del 1995, Le Pen è il candidato che ottiene la percentuale più forte tra gli operai, ovvero oltre  il 29% dei consensi. Però la performance più straordinaria di Le Pen è alle presidenziali del 2002, quando, con il 16,8% al primo turno, guadagna l’accesso al secondo, estromettendo il Primo ministro socialista Lionel Jospin. La vicenda del FN si dipana, da allora, fra fortune (tra i quali gli ottimi risultati delle regionali e delle europee del 2004 e del referendum con cui, nel 2005, i francesi respingono l’adozione della Costituzione europea) alterne, a causa sia del sistema elettorale maggioritario che alla “quarantena repubblicana” e all’emergere di Nicolas Sarkozy, fino al Congresso di Tours del 15 e 16 gennaio con cui Marine Le Pen, figlia del presidente, accede ufficialmente alla leadership del partito. La nuova leader frontista dà al partito un volto di nuova destra sociale e, soprattutto, più attuale: critico verso l’Unione Europea e, particolarmente, contro l’Euro; contrario al neoliberismo; convinto della necessità d’arginare le spinte della globalizzazione economica e finanziaria; assertore della nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia; avversario del fondamentalismo islamico e dell’immigrazione incontrollata. Un’attualità questa del Front che spiega (dopo il clamoroso 17.9% alle presidenziali del 2012 e il terzo piazzamento di Marine Le Pen) la “primavera elettorale” del 2014, con i successi delle municipali di marzo e delle europee di maggio. Perciò, il FN è, alla fine, senz’altro uno dei casi più riusciti di ascesa politica del dopoguerra. Salvo qualche clamoroso passo falso, l’influenza del maggior partito di destra sociale europeo è quindi destinata a durare ancora.
Articolo di GINO SALVI

Bibliografia

Hans-Georg Betz, Radical Right-Wing Populism in Western Europe, New York, St. Martin's press, 1994

Sara Gentile, Il populismo nelle democrazie contemporanee. Il caso del Front National di Jean Marie Le Pen, Milano, F. Angeli, 2008

James Shields, The extreme right in France. From Pétain to Le Pen, Londrà, Routledge, 2007

Matteo Luca Andriola, La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Milano, Edizioni Paginauno, 2014

Nicola Genga, Il Front National da Jean-Marie a Marine Le Pen. La destra nazional-populista in Francia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015

Thierry Bouclier, Les Années Poujade: une histoire du poujadisme (1953-1958), Editions Remi Perrin, 2006

Bernard Antony, Devoir de réponse à Marine Le Pen et à Philippe de Villiers, Godefroy de Bouillon, 2006

Christiane Chombeau, Le Pen fille & père, éditions du Panama, 2007

Laszlo Liszkai, Marine Le Pen. Un nouveau Front National ?, Favre, 2010

Alexander J. Motyl, Enciclopedia del Nazionalismo, vol. 2, 2001